Romeo Gigli: «La moda non mi manca, persi l'azienda per persone sbagliate. A 19 anni senza genitori, iniziai a viaggiare» (2024)

diVittoria Melchioni

Lo stilista che ha rivoluzionato la moda:«Una volta ad Alexander McQueen feci rifare la stessa giacca 5 volte. All'esordio sfilarono amiche e studentesse»

I sociologi sostengono che gli anni ’90 siano l’ultima decade degna di significato. Anni in cui avevamo sostituito gli eccessi dell’epoca precedente, con il minimalismo, il romanticismo, l’effortlessly chic di cui Romeo Gigli è stato l’emblema. Un successo travolgente, seguito da vicende legali che hanno ammazzato la creatività e hanno relegato Gigli alla mitologia della moda. Ma Romeo c’è. Lontano da Milano, foriera di brutti ricordi, nei vicoli della vecchia Marrakech, città che lo ha celebrato durante la recente fashion week attribuendogli un premio alla carriera, il designer ha trovato una nuova espressione per il suo estro aprendo Riad Romeo, una guest house di sole 5 camere, all’ombra dell’El Bahia.

Ha spesso dichiarato che il suo approccio alla moda è stato casuale. Ci può spiegare com’è avvenuto?
«Mio padre aveva a Castel Bolognese un’importante libreria specializzata in volumi antichi, per cui la mia cultura è di derivazione greco-latina. Da ragazzino, passavo le mie giornate immerso in questa biblioteca e attraverso questi libri, tanti dei quali riguardavano i viaggi dei primi dell’800 con meravigliose incisioni che raffiguravano le abitudini e i costumi del tempo, sono venuto in contatto con la moda. Poi, quando avevo 19 anni, ho perso i miei genitori improvvisamente. Stavo frequentando la facoltà di architettura a Firenze e decisi di mollare tutto per iniziare a viaggiare per elaborare il lutto. Per dieci anni ho girovagato per il mondo: Londra, New York e soprattutto tanta Asia. La curiosità è una parte fondamentale di me e inizio a collezionare oggetti d’artigianato, tappeti, tessuti e con questi, in Savile Row, mi facevo confezionare camicie e abiti, andando a definire il mio stile che negli anni ’70 era alquanto eccentrico».

L’evoluzione a stilista quando è avvenuta?
«A New York nel 1977 quando un amico mi introdusse a Piero Dimitri, che aveva un’importante sartoria. Da lui appresi i primi rudimenti tecnici, anche se avevo già assorbito abbastanza nozioni dai sarti che frequentavano casa mia. Tornai in Italia, a Como, e scelsi i tessuti che venivano utilizzati per confezionare le cravatte e con la mente ho iniziato a vagare nei ricordi dei miei viaggi. Avevo una splendida modella di colore che avvolsi in questi tessuti e le misi scarpe basse in pizzo come quelle che indossavano le mie amiche, le infilai una giacca da uomo, la caricai di gioielli d’ambra, di coralli e creai il mio primo look».

Si ricorda la sua prima sfilata?
«Ero molto amico di Edy Radaelli, che al tempo nel suo showroom aveva stilisti come Walter Albini. Le dissi che avevo fatto una piccola collezione di 15, 20 pezzi e che mi sarebbe piaciuto che lei la distribuisse. Accettò con entusiasmo e mi suggerì di organizzare un piccolo défilé a casa mia, che era molto singolare. Arruolai un po’ di studentesse come modelle, feci due sfilate al giorno e in men che non si dica vendetti tutta la collezione ai 30 negozi più importanti al mondo: Londra, Hong Kong, New York, Los Angeles».

E arrivò anche la notorietà.
«Dicevano che avevo rivoluzionato la moda».

Ed era vero. Emotivamente che periodo fu?
«Ero soddisfatto. Mi divertivo. Per un po’ di anni ho creato delle piccole collezioni che presentavo in “Corso Como 10” a Milano, lo spazio che avevo ideato io, che però poteva ospitare solo 500 persone. Volevo entrare nel calendario delle sfilate di Camera Moda ma non trovarono uno giorno libero per me, peccato perché il mio evento era diventato di portata internazionale e molti buyers e giornalisti stranieri vi partecipavano. Mandai un fax al corrispettivo francese di Camera Moda e furono ben felici di accogliermi. Era il 1988. Sfilai a Parigi e ricevetti 20 minuti di applausi, una standing ovation strepitosa».

Com’era il suo processo creativo?
«Mi chiudevo per una settimana nello studio a casa mia, con 20,30 scatoloni di tessuti selezionati divisi tra di loro per colori e iniziavo a dar vita alle collezioni. Non avevo la pressione che c’è oggi, si produce troppo e la creatività ne risente. Ora tutto è un dogma, tutto va fatto perché è imposto dai grandi gruppi, che al tempo non esistevano».

Dopo il successo arrivano le vicissitudini finanziarie che la porteranno a perdere l’azienda e l’uso del suo nome.
«Mi fidai delle persone sbagliate, un po’ per ingenuità, un po’ perché sono troppo educato e ho altri sentimenti e valori. Fatto sta che mi ritrovai ad essere ospite nella mia stessa azienda. Vedere il mio nome dissociato da me e dal mio lavoro mi ha fatto venire il mal di stomaco per un po’, poi ho dovuto farci l'abitudine. La moda non mi manca, la seguo poco».

C’è però un designer che la incuriosisce?
«Ammiro molto il lavoro di Rick Owens. Uno che sicuramente ha un punto di vista lontano dal mio, ma che dà molta importanza alla forma, come facevo io. Se lo si spoglia di tutta quella violenza che pone nelle sfilate, ci sono dei pezzi con proporzioni incredibili, immensi, con una progettualità pazzesca».

Un pensiero per due creativi che l'hanno affiancata e che ci hanno lasciato troppo presto: Alexander McQueen e Silvia Bisconti.
«Di Silvia ho un ricordo meraviglioso. É stata una delle mie primissime assistenti, aveva 19 anni quando è arrivata ed è rimasta al mio fianco tanti anni, memorie indelebili custodite nei miei archivi pieni di vecchi tessuti da reinventare e nuovi tessuti da lanciare come le trame stretch che avvolgevano il corpo senza avere la necessità di usare zip e bottoni che amo poco. Era simpaticissima. Con lei riuscivo a ridere a crepapelle. Alexander McQueen me lo sono trovato davanti una mattina in Corso Como. Lo presi sotto la mia ala protettrice. Un giorno gli feci fare una giacca da uomo. Gliela feci rifare 4, 5 volte. All'ultima prova, staccai la fodera e dentro al capo, trovai che aveva scritto con un grosso pennarello nero “f*ck you Romeo”. Ci siamo messi tutti a ridere. Mi disse: “voglio diventare come te”».

Da poco ha aperto Riad Romeo nel cuore della medina di Marrakech. Perché proprio la città rossa?
«È stata la meta del mio primo viaggio fuori dall’Europa quando avevo 17 anni e ne rimasi incantato. Era come entrare in una fiaba. Restai in Marocco per 3, 4 mesi e in seguito ci tornai almeno una volta all’anno. Con mia moglie Lara abbiamo deciso di comprare un riad e di ristrutturarlo a modo nostro, con il mio stile, che parlasse di me. Alla fine, sono tornato in qualche modo all’architettura da dove era partito il mio viaggio, in una circolarità che non rappresenta una meta, ma un nuovo inizio».

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15 aprile 2024

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